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Diritti umani

Io sarei anche d'accordo che tutti i migranti, ma tutti gli uomini del mondo, da tutte le Diciotto del mondo, possano liberamente scendere nella terra che scelgono individualmente. Ma questo solo perché io non sono "normale. Perché sono un caso patologico. Affetto da una, purtroppo rarissima, malattia definibile "Illumanesimo". Portatore sano di una strana variante dei "diritti umani" quelli "consapevoli ", quelli che non contemplino la possibilità della reciproca presa per i fondelli, sia tra comunità che tra singoli.

In media, la mia è una mallattia che colpisce un uomo su un miliardo. Una malattia che porta alla distruzione delle comuni idee intorno ai concetti sociali di confini, degli stati, dei nazionalismi, degli eserciti, dei governi, e di ogni altra divisione tra le diverse comunità umane e tra i singoli.

Una malattia che porta a coltivare l'idea che l'unica diversità esistente tra gli uomini sia quella derivante dai differenti percorsi culturali ed esistenziali sia delle comunità, attraverso le leggi che ognuna di esse si “decide”, e quella tra singoli individui. Nessun'altra ne potrebbe e dovrebbe esistere.

Però, e per naturale conseguenza, sono anche convinto che, fino a quando non si è colpiti da questa malattia, e si ritiene, e si opera rifacendosi ai concetti classici di diversità - quelli che portano a costruire stati, nazioni, a vedere razze dove non esistono, ecc. -, fino a quando si accetta di vivere, passivamente, all'interno di queste queste "vecchie" diversità, le legislazioni conseguenti, ed i conseguenti condizionamenti psicologici che ne derivano, pur nella loro insensata utilità, dovrebbero vedere rispettate almeno le applicazioni di queste condizioni; che non posso valere a intermittenza e parzialità.

Gli stati, e gli uomini che li compongono, non possono che operare applicando a pieno e con imparzialità per tutti le regole che si sono dati. E’ un principio di giustizia anche questo. Già solo questa, sarebbe una forma più giusta di uguaglianza.

Solo se, quando, e chi saprà colpito da quella rara malattia, solo dopo aver trasformato quella malattia in cultura condivisa, si assumerà il diritto a pretendere, da altri, il rispetto dei diritti umani, doveri morali, accoglienza ecc. Diversamente, si è solo vittime psicologiche di una presa per i fondelli collettiva. E il tacere dovrebbe essere una forma di rispetto almeno verso se stessi.

Però, quella malattia, che oggi è vista, giustamente, solo come un'utopia, contiene in sé una buona dose di realizzabilità.

Al punto in cui ci troviamo, se la realtà sociale non è ancora pronta a recepirla, e se i sani si sentono, e socialmente lo sono, ancora nel giusto anche quando ignorano tutto questo, almeno la filosofia potrebbe, e a mio modesto avviso avrebbe il dovete, di trovare il coraggio per aprire una discussione su questa malattia. Il coraggio di iniziare a denunciare l'insensatezza, l'ormai insopportabile ipocrisia intorno ai diritti umani a cui, spesso, essa stessa fa riferimento. Diritti presenti solo, o sulla carta, o sguaiatamente sulle bocche di troppi, e su troppe banchine dei porti.

Qui si parla di un percorso che l’uomo può intraprendere solo se, attraverso la filosofia, smette di limitarla al contingente, limitando se stessa a evidenziare problematiche senza il coraggio di mettere un piede oltre il fosso del vuoto sociale. Vuoto che, intorno ai diritti individuali, inizia a diventare insostenibile e pericoloso per molti.

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