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Il concetto di autorità e la formazione

 

L’oppressione degli altri spesso avviene attraverso i fattori educativi, cioè è un'oppressione che si maschera di liceità, di moralità, semplicemente perché nasce da un rapporto autoritario, anche all'interno della famiglia, da un rapporto istintivo di origine animale assecondato fino al punto da essere anche stabilito per legge.

 

Il concetto di autorità come oppressione, come po­tere, è un concetto che probabilmente sarebbe bene eliminare.

 

La società nasce dalla famiglia e la famiglia cresce nella scuola; è questo rapporto continuo di sviluppo, armonico, funzionale, di interscambio, che può dare una società buona o meno buona, cioè una società con individui psicologicamente sani o più o meno sani (per quanto sia possibile essere sani nel nostro corpo). Può darsi che il corpo non sia deputato a stare completamente bene, ma sufficientemente bene però si, almeno quel tanto che basta per creare dei rapporti armonici fra gli uomini.

 

I comportamenti degli uomini tendono a uniformarsi. I giovani in particolare hanno questa tendenza molto spiccata, ma quando questi si comportano male reciprocamente raramente ci si chiede: perché si comportano in quel modo?  E anche quando ce lo chiediamo siamo subito pronti a cercare le colpe lontano da noi.  Questa invece sarebbe l'unica domanda saggia da porsi, naturalmente dopo essersi fatti un onesto e severo esame di coscienza, perché scopriremmo che molta della colpa è nei modelli sociali che anche noi abbiamo contribuito a costruire.

 

C’è anche un altro aspetto che di solito si dimentica di valutare, ed è quello di chiedersi se le cose che i giovani cercano siano, magari, cose anche giuste, e siamo noi a sbagliare a non volergliela far fare. Spesso dimentichiamo anche di analizzare i motivi di questa scelta, di questa posizione di divieto, e se provassimo a indagarci potremmo scoprire che molti di quei divieti sono di carattere culturale, sono acquisiti dal contento in cui viviamo e che non abbiamo mai vagliato criticamente. Il nostro comodo e auto giustificante e quasi sempre: quella cosa non si fa perché è sempre stato così.  

Non sempre è così naturalmente; però spesso accade che le cose stiano così, che in genere ai fi­gli non si vogliono far fare le cose verso le quali, come genitori, si sente avversione. E speso si sente avversione verso certe cose perché così ci hanno imposto di pensare, oppure perché abbiamo degli pseudo principi morali, o anche morali di tipo individuale, a cui pretendiamo si conformino anche gli altri, soprattutto se questi sono i nostri figli. Ma chi ci dice che quei principi morali o pseudo tali siano anche i loro? Nessuno, e quindi quando lo facciamo compiamo inevitabilmente un abuso di individualità. A me sembra che questa sia una problematica abbastanza difficile e che non si possa giudicare e risolvere così a naso, ma la si dovrebbe giudicare secondo una ideologia di fondo che deve farci da guida. E’ probabile, anzi secondo me è certo, che il comportamento di un ragazzo nasca anzitutto da sue esigenze, e bisogna analizzare se queste esigenze sono giuste o no, però non bisogna analizzarle in base ai principi della società e del rispetto sociale, ma a ciò che gli è più utile per la sua mente, per la sua conoscenza e per la sua salute, non perché lo dice la gente o lo dice il genitore: questo è il punto.

 

 

La società che respinge, che vieta in virtù di convenzioni è la società che la pensa a quel modo, una società che non pensa al bene di quei giovani, di quegli uomini, di quelle persone, ma di se stessa e del proprio modello.  Questa è una catena che si ripete di generazione in generazione, e quasi sempre noi, magari inconsciamente, imprimiamo gli stessi tipi di repressione ai quali siamo stati sottoposti quando eravamo ragazzi, ed allora vogliamo, crediamo che sia giusto volere che i figli si comportino nella stessa maniera come ci siamo comportati noi.

 

C’è un altro aspetto della questione: La società è divisa in tante ideologie, per cui si può essere respinti da un certo modo di pensare ed essere accettati da altri che la pensano in un altro modo. Questo dovrebbe essere un altro campanello di allarme che ci dice che non è significativo quello che pensiamo e vogliamo noi ma deve esserlo per chi lo deve vivere.

 

C’è poi anche l’aspetto dell’allontanamento: se una persona si trova a vivere in un ambiente non conforme tende ad allontanarsi, e questo ci crea dolore, mentre se si sente capita tende ad avvicinarsi, e questo ci porta piacere. 

Nessuna repressione è mai giusta, semmai è conveniente, e spesso è conveniente più per chi la pratica che per chi la riceve. Lo è perché soddisfa psicologicamente, e ragionando per aspetti formali, attraverso i quali creiamo una serie di rappacificamenti con gli altri, con la società, siamo contenti quando le cose vanno in un certo modo perché quel modo non ci crea contrasti, anche mentali, con gli altri, ma quasi mai ci preoccupiamo se crea problemi ai destinatari di quella repressione.  

I figli sono delle persone con le quali si può parlare, e questo vale naturalmente non soltanto per i figli, ma vale anche per le mogli, per i mariti, vale per tutti coloro che fanno parte di un nucleo familiare. E' chiaro, una famiglia‑modello, una famiglia che sappia far crescere i figli nella maniera più rispettosa possibile delle esigenze dell’individuo, presuppone una “educazione modello”; essere genitori senza questi presupposti, parlare del futuro di una società migliore senza queste premesse di base è pura utopia.

Diversamente si deve parlare di una società autoritaria in cui queste sono le norme, chi non obbedisce è “fatto fuori” perché così bisogna comportarsi. Cosi però si impone uno pseudo bene, uno pseudo ordine e uno pseudo equilibrio; così siamo sempre andati e così continuiamo ad andare avanti. Quando qualcuno tenta di modificare la sostanza dei comportamenti, quando si introducono cose che colpiscono la sostanza dei rapporti, degli atteggiamenti, allora nasce il moto di ribellione. Ognuno si richiude nel suo guscio di autorità, nella sua definizione sociale e familiare, e non vuole abdicare a questo ruolo: la madre è la madre, il padre è il padre e i figli sono i figli, punto e basta, senza pensare che al di là di tutto questo vi sono prima di tutto gli individui e poi dei nuclei umani che interagiscono quando sono in­sieme, e che funzionano male quando questa interazione non è armonica e rispettosa delle singole individualità e dei singoli bisogni.

 

E’ tutto un problema educativo. La società dovrebbe tendere a questo miglioramento dell'educazione sin dalla base, sin dalla famiglia e dalla scuola. Di conseguenza seguirebbero inevitabili risvolti sociali, economici e via di seguito.

 

E’ un’utopia? Forse. Ma se pensare di iniziare la modifica da questo rapporto è un’utopia difficile da realizzare, perché manca la base culturale per portarla a termine, pensare di far finta di niente è un delitto; o almeno dovrebbe diventarlo.

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